Di solito si legge per due motivi: per avere di che pensare oppure per svagarsi immedesimandosi in una bella storia. Il primo impone un lavoro (intellettuale), il secondo ce ne solleva in assoluto.
Il primo, in linea di principio, è un buon motivo per leggere, il secondo, sempre in linea di principio, è un cattivo motivo. Ma ha le sue giustificazioni. È una fortuna, d’altra parte, se ci si imbatte in quei libri che soddisfano l’uno e l’altro, presentandosi come disimpegnati ma rivelandosi, al contrario, tutt’altro che leggeri. Piacevoli incontri. Ci sono poi quelli, ben più rari, che non fanno né l’una né l’altra cosa.
Il Libro delle pipe di Dino Buzzati ed Eppe Ramazzotti è un’opera che dire originale è dire poco: la si può dire (se proprio si deve) “degenere”. “Degenere” nel senso che Carmelo Bene coniò per il suo Teatro: che sfugge a ogni tipologia e, in quanto tale, disattende ogni aspettativa; e che, in quanto tale, devia il senso, smarca il significato, «sasso in bocca al significante». A prima vista sembra un’opera a metà strada tra il manuale e il catalogo, e appunto di pipe si parla; ma in una maniera che confonde il vero con l’immaginato, che mette alla pari dell’esistentissima Pipa di Chemnitz una, decisamente inverosimile, Pipa giardino. Non contiene che aneddoti assurdi e senza scopo, con personaggi strampalati che fanno e dicono cose strampalate; le pipe vengono analizzate senza alcuna serietà, mescolando fantasia e realtà tanto nelle illustrazioni degli autori quanto nelle didascalie; e così via per pagine e pagine. È un’opera non soltanto ironica e divertente: è un’opera completamente inutile. Per questo mi sentirei legittimato a coniare un neologismo, definendolo “libro perdigiornista”: in quel senso nobilissimo, peraltro tutto maschile ed estraneo alla donna, che non è il “pettegolare” contemporaneo (divertissement salottiero da aperitivo per eccellenza, dunque femminilissimo, anche se oggi occupazione prediletta di tanti maschi) ma il “dilapidare”, tempo e conoscenza. Non a caso ogni capitolo è introdotto da altissime citazioni letterarie (quasi sempre, ché ce n’è anche una nonsense tratta da una nursery rhyme di Mother Goose che la dice lunga su quanto detto sopra); la lingua di cui gli autori si avvalgono è un aulicissimo e latineggiante italiano Ottocentesco degradato a parodia di sé stesso; i disegni sono di ottima fattura e, come se non bastasse, gli incipit dei capitoli sono pure miniati. Un lavoro certosino “sprecato” e proprio per questo veramente “artistico”. Nessun intento didattico o sociale; nessuna invettiva satirica da scagliare (non vi sono riferimenti nemmeno lontani al mondo politico o culturale dell’epoca, ed era il 1934…); nessun manifesto di poetica: niente di niente. È un libro totalmente vuoto, ed è questa la sua potenza dirompente.
“Degenere”. Riduzione al puro significante. Letto in quest’ottica e messo in relazione alle altre opere di Buzzati (Ramazzotti ne era il cognato appassionato di pipe, e avrebbe poi scritto un manuale ordinario sull’argomento, Introduzione alla pipa), il Libro delle pipe fa sistema per tutta una serie di ragioni che non possono essere sondate esaustivamente in questa sede. Riguardo a quanto si è detto si possono però spendere due parole. Chi ha letto Il deserto dei Tartari, riconosciuto come il suo capolavoro, sa a che mi riferisco: così come il Libro delle pipe prende il suo soggetto a pretesto per (non) dire del nulla, dell’inutilità, così la narrazione delle vicende di Giovanni Drogo è, in chiave romanzesca, pretesto per (non) dire altrettanto. In entrambi vi è quel senso di attesa che illude il lettore di un evento significativo, di una verità, di un fine a cui il testo è proteso; laddove ci si accorge, in ultima battuta, che il testo si dà in virtù della sua stessa mancanza, del fatto che nell’uno non vi è narrazione come nell’altro non vi è materia da catalogare. Due strutture testuali come infarcite di sostanza trasparente, a conti fatti eliminabile o sostituibile, che proprio (e solo) a conti fatti si risolvono nella struttura stessa, cioè nel nulla. Esistono come romanzo, manuale in quanto si enunciano, e soltanto nelle condizioni formali in cui enunciano sé stessi. Ciò ha ripercussioni pure sul lettore, poiché il “dilapidarsi” del testo è attivato proprio in quanto il lettore “dilapida” la sua stessa lettura e, dunque, la propria vita, il proprio tempo e le proprie energie. Nel caso de Il deserto dei Tartari tale spreco è problematizzato, coincidendo mimeticamente con lo spreco della vita del protagonista: noi realizziamo che il destino di Drogo è il destino di ogni uomo, cui non è dato cogliere il significato, l’essere, l’ontologia. Nel Libro delle pipe a me pare tutto si risolva non tanto nella carrozza che se ne va, ultima illustrazione, con l’invito a che il lettore possa trovare «conforto e sprone» nel ricordo degli insensati aneddoti narrati; bensì nell’ultimissimo disegno, a opera già conclusa: una mano che, impugnando una pipa, significativamente “indica l’indice” del libro. D’altronde l’indice è un capitolo presentato come gli altri, con la sua citazione letteraria (a Rabelais, nientemeno) e il suo titolo. Come a dire: tutto quanto è detto è circolo vizioso, è ripetizione all’infinito; e tutto quanto è detto, fatto, vissuto nella ricerca di un quid oltre le cose si rivela, poveri noi, una semplice e beffarda tautologia. E, se non lo sapessimo già, questo Libro delle pipe ce lo fa vivere in prima persona, e ce lo dice di nuovo.