Il libro di cui parliamo in copertina del numero di ottobre di Stilemaschile è stato oggetto, fortunatamente, di molte recensioni positive che sottolineano come la scelta di Iaria di parlarci di questo misconosciuto campione sia stata davvero interessante.
Tra le tante, dicevamo, ne abbiamo scelta una. Eccola.
“L’intelligenza, la furbizia, l’eleganza, la fantasia. In un colpo solo, il compendio di tutto il bello del calcio”, così nel suo bel libro-biografia su Eduard Streltsov Donne, vodka e gulag (Limina, 2010, pp. 150) Marco Iaria definisce il colpo di tacco che ebbe tra i suoi precursori il celebre e sfortunato attaccante della Torpedo Mosca. Non a caso, ancora oggi in Russia il colpo di tacco (in russo pjatkoj “di tallone” viene talvolta chiamato “alla Streltsov”. Il volume di Iaria, giornalista della Gazzetta dello Sport, non è comunque semplicemente un libro di calcio. È sì una biografia sportiva, ma per le prove e le traversie che Streltsov fu chiamato a sopportare e per i tempi storici che fecero da cornice, il libro si presenta come un vero e proprio studio storico, certo di taglio divulgativo, ma certamente documentato, lineare e competente. Va subito notato, come esso rifletta un interesse per il personaggio che si è assai rafforzato in patria negli ultimi anni (quest’anno è il ventennale dalla morte) proprio per la rilevanza non solo sportiva, ma anche storico-politica che rivestì il “caso Streltsov” (un merito particolare va alla esaustiva monografia di Aleksandr Nilin).
Il giovane e turbolento Edik, genietto del calcio sovietico degli anni Cinquanta, era partito da semplice fabbro tornitore e aveva raggiunto il luminoso mondo dell’élite moscovita, tra bevute e avventure galanti, per passare poi dalla gloria degli stadi alla polvere del lavoro forzato nel lesopoval del campo di Vjatlag per scontare una condanna per stupro comminatagli dopo un’inchiesta e un processo farsa (così lo definì A.Starostin, mitico calciatore dello Spartak, che fu ammesso al dibattimento). Streltsov fu certamente un’icona del suo tempo, dopo la morte di Stalin e negli anni del disgelo, ora osannato dai tifosi e dalla gioventù anche per le sue pose da stiljaga (Iaria con acume parla di teddy boy sovietico), ora malvisto dall’apparato in anni segnati da forti speranze di cambiamento e corrispondenti delusioni, dal XX congresso del Pcus all’invasione dell’Ungheria, dai segnali di liberalizzazione nella letteratura del disgelo al caso Pasternak.
Naturalmente il libro, che si sviluppa in una serie di capitoli dai titoli eloquenti (ad esempio, Non disturbate il dittatore, Lo Sputnik del calcio moderno, La propaganda sparge veleno, Eccolo il Gulag, Grazie compagno Breznev, ecc.), è in primo luogo un libro di calcio e ricostruisce la fulminea carriera di Streltsov nella Torpedo, la squadra della fabbrica automobilistica Zil di Mosca, e i suoi successi nella nazionale sovietica a partire dalle prime comparse e poi le Olimpiadi del 1956, ma l’autore è anche attento a definire i tratti storico-politici e il ruolo svolto dal football in Urss a partire dall’epoca staliniana, evidenziandone tutti i risvolti di potere, anche nella politica estera, che d’altronde caratterizzarono tutta la gestione dello sport in epoca sovietica. Ecco così definire le caratteristiche delle varie squadre, da quella della polizia segreta, la Dinamo, già sostenuta da Berija, a quella dell’esercito nelle varie sue denominazioni, fino al popolare Spartak e alle varie squadre non moscovite che andarono rafforzandosi in epoca post-staliniana. I riferimenti bibliografici cui si volge Iaria sono ricchi e articolati. Il quadro offerto della storia del calcio sovietico degli anni Cinquanta-Sessanta (Streltsov dopo la prigionia fu liberato e reintegrato specie grazie a Breznev e contribuì alla vittoria dello scudetto della Torpedo nel 1965) è sempre convincente e esauriente, anche nella descrizione del mondo del tifo.
Egualmente puntuale la cronaca della vita di Streltsov nella prigionia (il libro si apre con una vivace e commovente descrizione di una partita che il campione gioca in un match tra detenuti), nonchè le annotazioni relative alla vita quotidiana e familiare, basate anche sulle testimonianze del figlio e del nipote del campione. Attendibili sono poi le ipotesi sugli atteggiamenti verso Streltsov negli ambienti ufficiali, dalle pressioni contro di lui di Chruscev e della Furtseva (Streltsov avrebbe offeso la giovane figlia a un ricevimento al Cremlino) alla riabilitazione legata a Breznev e poi ad Arkadij Vol’skij, personaggio di spicco della vita politica e industriale sovietica e post. Nel corso della narrazione vengono tracciati i profili di altre stelle del football sovietico, dal leggendario portiere Jasin a Voronin, a Ivanov e Szabo e si riportano i tanti dati tecnici e sportivi desunti dalle cronache internazionali dell’epoca, dai Mondiali di Svezia del 1958 (l’assenza di Streltsov fu sottolineata da Liedhom che ricordava la tripletta rifilata alla Svezia da Strelstov nel 1955) agli Europei di Francia del 1960, ai Mondiali di Wembley del 1966, tutte competizioni cui Streltsov non potè partecipare, non potendo così mai confrontarsi direttamente con il grande Pelè (“Se Pelè bevesse tanti caffè quanta vodka beve Streltsov morirebbe” dicevano gli operai della Zil), fino alla Coppa dei Campioni con l’Inter del 1966, quando il nostro potè finalmente andare all’estero e, malgrado la grande prova, la Torpedo fu eliminata dallo squadrone di Helenio Herrera. Il libro è tutto pervaso da un senso di nostalgia, nostalgia per quello che non potè essere, ma anche per un’epoca ormai lontana, quando lo sport era in primo luogo scelta di vita, vocazione ideale in un mondo terribile, ma percorso da giovanile slancio. Quel giovanile slancio che indubbiamente ha animato il nostro autore nella sua impresa. (STEFANO GARZONIO, “Il Manifesto”)