We’re all alone/ so alone/ stone upon stone ( DEATH IN JUNE)
Vivere ─ è la nostalgia dell’essere fuori fuoco. Là dove riposa l’irrequietudine dei morti, il vento spazza via quel che resta della cenere. Dovrei parlarvi di bellezza. Vi parlerò di morte. Incontrando uomini straordinari che hanno chiuso gli occhi per vedere. Quel luogo dello spirito irriducibile che in-forma lo “stile maschile”. Per compiere un destino e disciplinare un culto. Abbiamo seguito la cometa Michelstaedter, prima che ci abbandonasse alla rettorica del nostro cammino, ed ora riflettiamo sulla decisione ultima la nostra esitazione. “Il pensiero del suicidio è un energico mezzo di conforto: con esso si arriva a capo di molte cattive notti” (Nietzsche). E poi? Vorrei frammentare alcuni sguardi, sotto la guida spietata di occhi che non orbitano più intorno a noi: testimonianze esemplari dell’accecamento. Catone, Empedocle, Seneca, Hemingway, Van Gogh, Von Kleist, Ciaikovski, Jesenin, Weininger, Michelstaedter, Zweig, Maiakowski, Mishima, La Rochelle, Debord, Deleuze… e via morendo, siamo eternamente quello che ci manca. La pietà delle moltitudini che perdo(na)no la vita.
I nomi terribili che abbiamo appena evocato, vittoriosi o vinti, non sono più ─ ostaggio della paura. Se ogni paura è paura della morte, poi. Sembra che per vivere oggi non occorra dignità. Mentre la morte spinge nel vuoto il proprio acuminato limite. Il riprodursi pandemico dell’umanità toglie all’essere per dare al mondo. Mediocrità infrenata che stinge di rosa o azzurro. Morire è per tutti e nessuno. Un mistero, un rito, un sogno di chi è stato ─ straniero in questo mondo. L’idea che un domani si possa non essere più, in questo “uscir fuori” (estasi) della vita. Che significa? Contemplatio mortis. Invito a una pratica ostinata di “gioia davanti alla morte” (Bataille). Volontà, misura e confronto della propria fermezza. Come Kamikaze, spiriti eroici di un volo senza ritorno, cui la prospettiva di poter essere chiamati in qualsiasi momento al sacrificio non opprimeva in nessun modo il cuore. Il resto è ironia. Se chi è già morto non muore. Lasciamo la morte dietro di noi, magicamente sciogliendoci in una vita libera, anche di morire. Abbandoniamo a chi è solo ─ brutalità fisiologica, l’idea che si cominci con la nascita e si finisca con la morte. E teniamo per noi la calma e la sicurezza di chi sa di essere stato, un cambiamento dell’essere, e che l’essere è solo un cambiamento di stato: vita e morte, in attesa della copula che ne sigilli l’unità. Vita è Morte. Se l’amore è a-mors: l’eternità di ciò che non muore.
Un’epoca ormai dissolta come la nostra, irrigidita come un cadavere, non tollera questo apparire nell’essere che si è, infranto. Tuttavia, poche luci nella Notte bastano a illuminare il cammino di chi sa custodire la sicurezza immanente per compierlo. Ciò che è superiore alla vita è superiore anche alla fine della vita. Morire allora, tra l’ignoto e i cieli, forgiando oscure alleanze nel silenzio. Oltre l’ignavia che conosci e ti cavalca. Perché la Notte è dei Soli, in attesa di risorgere. Sarebbe terribile se i morti vivessero. Il suicidio, fosse possibile, è condannato dalla moralina che pasce il grembo benedetto della nostra inciviltà. Terribile la definizione di Cioran: “il nirvana mediante la violenza”.
Ma vi furono un tempo dottrine, e sempre saranno, che insegnano a perdersi per trovarsi. Riflesso pavloviano dell’infermo: “provare per credere”? Sia pure, provare… a morire per vivere. Togliersi (dal)la vita che si è, e non si ha, è roba da far tremare i polsi, altro che tagliare. Non basta davvero la fidanzata che sparisce, per un addio alla terra ─ mai abbastanza crudele ─ che presto riaccoglierà l’improvvida evasione. Morte e tasse, nevvero?, sono una sicurezza. Non basta il lavoro, che si ha e mai si è, o il fallimento o quant’altro appartenga ancora all’umano troppo umano. Non bastano nemmeno per vivere, queste squallide affermazioni dell’io che, pur di (non) esistere, s’affanna a lasciarci nel dolore. Se davvero poi s’offra la vita a liberarsi, di chi non è mai stato. E siamo al punto, illuminato da due visioni che donano, a quanto andiamo delirando, aumane prospettive. Cominciamo con lo stoicismo, che ha affermato la forma più severa di disporre della propria vita terrena. Seneca insegnava che l’Uomo è superiore agli stessi dei, i quali per via della loro natura non conoscono le avversità, mentre l’uomo è sì in balia di esse, ma ha il potere di vincerle. L’uomo può trionfare sul male. Cos’è il “male”?
La passione, la torbida adesione alla vita, la brama. Si deve infatti condannare qualsiasi giustificazione del suicidio in cui intervenga un motivo passionale. Chi si uccide per passione è un vinto e come tale è da disprezzare. Un simile atto testimonia soltanto l’incapacità di affermare se stessi contro e sugli impulsi più bassi dell’essere, quella vita sensitiva il cui dominio è condizione primaria per considerarsi davvero uomo. Oltre un tale piano è possibile tuttavia una giustificazione d’ordine superiore. La visione generale della vita dello stoicismo romano è infatti quella di una lotta. E solo presso questa visione virile Seneca giustifica il suicidio che, per bocca della stessa divinità, è via d’uscita sempre aperta per chi non volesse più lottare. L’uomo allora, l’abbiamo appena visto, non solo possiede una forza più forte d’ogni contingenza, ma può sempre scegliere di andare: “Dovunque non vogliate combattere, vi è sempre possibile ritirarvi. Nulla vi è stato dato di più facile che morire” (De providentia). La vita come una prova per quell’essere che hai voluto divenire, vivere, incarnare. L’uomo come un guerriero metafisico, il destino come una consegna militare, la terra come prova della nostra fiducia trascendentale, Dio come una misura celeste. E Uomini che nemmeno muoiono, semplicemente ─ smettono di giocare. Perché nel vivere come nel morire sono lo “stile”, l’attitudine ed il significato della nostra lotta, compresa la rinuncia, a farci uomini. Sì, vi è uno stile del morire ed una mistica del combattere, che è orgoglio etico ed estetico insieme, ed un disprezzo dell’originalità nel segno dell’originario.
L’Occidente ha dimenticato quel che è memoria cosmica, così come si finge di non vedere un amico che si è tradito e ci viene innanzi, sicuro d’essere riconosciuto. Orientiamoci allora con la visione della vita del buddhismo, che sposta il sentimento di sé su di un piano trascendente, relativizzando la realtà del singolo e della sua vita terrena. Il sentimento delle grandi distanze, di “venire da lontano”, per vivere un episodio che ha cause remote, un fascio di tensioni oltreumane che libererà destini. Un’io, quello dell’uomo, che non è semplicemente umano, se è vero che persona significò “maschera” per i latini, quella con cui si appare, ci si manifesta, si recita una parte. E dietro di essa, qualcosa di indomabile, che non ha forma potendo tutto divenire: il vuoto. Da qui l’intensità e la potenza di esseri la cui vita gira attorno ad un nucleo indistruttibile, su di un piano superiore alla tragedia e all’angoscia. Eroismo olimpico. Non c’è sociale che tenga ad altezza di morte. Jus vitae necisque: responsabilità di fronte a se stessi, dimensione spirituale, orizzonte superterrestre, nessuna devozione, realismo. Il saggio, per cui il vivere e il non-vivere fossero divenuti affatto uguali, non altri, avrebbe diritto alla morte volontaria. Non fuga e vigliaccheria ma freddo distacco. Chi rinuncia alla vita per la vita, per un godimento che non trova la via, per questa o quell’altra forma di appagamento, lo sappia o no, uccide un morto. In questi casi l’atto non significa liberazione ma una forma estrema e perversa di attaccamento alla vita, dipendenza e desiderio. La sconfitta eterna di un’esistenza senza amore, luce e stabilità. La saggezza, certo, ma giunti che si sia ad una tale vetta di in-differenza, cosa potrebbe muovere ancora alla violenza di una soluzione ultima? Consapevoli del tempo e dello spazio di un’esistenza che è episodio, transito e missione, l’avvertire impazienza, orrore, noia etc. non rivelerebbe forse un residuo umano, qualcosa di non risolto, una debolezza? Un ultimo aspetto. Ho diritto solo su ciò che mi appartiene. Ma questa vita che mi fugge è davvero mia, e cosa, e di chi, è la “vita” che chiamo mia? Un solo istante di riflessione annienta facili entusiasmi: corpo e vita non sono infatti cosa che io ho in mio potere, cose di cui io sono il principio. Non per nulla da antiche tradizioni la vita è considerata un prestito da restituire generando figli, e il primo figlio fu chiamato “il figlio del dovere”. Il suicidio comune, fisico non è altro che violenza su quel che non possiamo dire nostro e che non dipende da noi. La maggioranza degli occidentali moderni considera la nascita fisica il principio della sua vita. Le più antiche tradizioni indoeuropee stabilivano invece un rapporto di causa-effetto tra la pre-esistenza e “questa” vita, come qualcosa in cui noi, prima di essere “terrestri”, ci siamo impegnati come in un’elezione, spesso tragica. Il problema, come si vede, è di visione generale dell’esistenza, perché chi ha il perché (della vita) possiede anche il come (della morte). Che si muoia o si viva, a patto che se ne sia com-presa la differenza, dipende quindi dalla propria visione del mondo e fino a che punto i propri occhi possano permettersi di chiudersi. Ognuno sa che prima o poi la fine verrà. Di fronte ad ogni contingenza allora, forse è bene scoprirne quel significato nascosto, che è solo per noi, invece di dire no e sparire o sparare indignati. Perché anche morendo, rimaniamo quello che siamo.
“La vita sulla terra è un viaggio nelle ore di notte”.
(Sul titolo, un’opera di Mark Rothko, morto suicida a 67 anni)