In questi ultimi anni il mondo degli whisky è stato fortemente movimentato dal Giappone, con una scossa tale da farlo diventare il whisky più venduto in Francia e un conseguente tsunami d’interesse mediatico, culminante con l’attribuzione di numerosi premi, quale quello conferito dal famoso giornalista Jim Murray, scrittore della whisky bible, che nel 2014 ha eletto come miglior whisky del mondo uno Yamazaki. Ora, questo crescente interesse è giunto anche in Italia, con una conseguente corsa ad accaparrarsi a qualunque costo un whisky, purché provenga da tale arcipelago. Premesso che non sempre e comunque ci troviamo di fronte a prodotti d’eccellenza, in effetti, tanto clamore non ha torto d’esistere. Complice alcuni mantenuti tradizionali metodi produttivi, che in Scozia si sono abbandonati da oltre quarant’anni, il whisky giapponese risulta essere di grande eleganza, sobrietà, armonia e profondità. Proprio come la loro cultura. Ma mentre il whisky, come credo tutti sappiano, non è originario del Giappone, (la prima distilleria risale infatti al 1923), nativo del luogo è bensì lo shochu che rappresenta la tradizionale bevanda alcolica giapponese con una storia di oltre cinquecento anni.
Lo shochu autentico è realizzato principalmente con materie prime come cereali quali orzo e riso, ma anche con patate dolci, e dalla combinazione fra essi.
La zona dove è prodotto maggiormente è Miyazaki, una delle prefetture di Kyushu, la più grande isola meridionale dell’arcipelago giapponese, che, grazie al proprio clima sub tropicale, aiuta a ottenere un prodotto di elevata qualità.
Per produrlo è innanzitutto necessaria la preparazione del koji realizzato coltivando una particolare tipo di muffa chiamata koji-kin, bianca o nera che sia, principalmente sul riso (ma anche sull’orzo), cotto al vapore. Tale muffa è lasciata moltiplicare per circa quaranta ore. Al termine di questo processo, allo shubo così ottenuto, si aggiunge acqua e lievito e qui viene il bello. Difatti, mentre i distillati del mondo sono perlopiù prodotti con una fermentazione alcolica successiva alla saccarificazione, nel caso dello shochu fermentazione e saccarificazione avvengono assieme e nello stesso recipiente e per ben due settimane. Questo consente di ottenere un prodotto chiamato moromi, con gradazione talmente alta, fino anche a 20%, da permettere una sola distillazione che, peraltro, è prevista dalla legge. Infatti, al termine di questa unica distillazione, lo shochu ha già una gradazione alcolica sufficiente per la maturazione ma, sempre secondo la legge erariale giapponese, il suo titolo alcolometrico non può superare i 45%. Inoltre, qualora sia invecchiato in legno, il suo colore non può superare una colorazione di intensità di un decimo di quello di un whisky. E per un amante del whisky, fa solo che piacere riscontrare che, come termine di paragone di un distillato con oltre cinquecento anni di storia, si sia preso in considerazione il whisky medesimo. Alla fine, si può imbottigliare con la medesima gradazione di uscita dalla botte o diluirlo progressivamente, fino a 25%. E si può decidere se filtrarlo o meno. Ebbene, tutto ciò è talmente distante da quanto noi siamo abituati a vedere nella distillazione, che non poteva produrre una bevanda simile a ciò che conosciamo. Il primo impatto sarà probabilmente di sorpresa e, a volte, di rifiuto. Tuttavia, un individuo aperto a nuove esperienze sensoriali non potrà non accorgersi dell’intensità e dell’eleganza di questo distillato. E una volta entrato nei canoni aromatici dello shochu, non potrà far altro che apprezzarlo. A noi di Whisky & Co è immensamente piaciuto. Si tratta di realizzazioni di qualità e improntate all’artigianalità, principio non sacrificabile. Del resto, poteva una nazione che produce in maniera esemplare un distillato non appartenete alla sua tradizione, creare, invece, il proprio scadente? Verrebbe da dire: buon sangue, non mente.
Kampai!