«O tu che invoco, se non fosse l’io
una sola virtù dell’Apparenza,
ritorneresti dopo tanta assenza
tra i frutti del frutteto solatio…»
GOZZANO: La via del rifugio (I sonetti del ritorno – V)
Guido Gozzano poeta delle «buone cose di pessimo gusto». Guido Gozzano dandy. Guido Gozzano piccolo borghese. Il sofferente, malinconico Guido Gozzano; il crepuscolare, il dannunziano, l’esteta. Tanti epiteti si sono sprecati sulla sua personalità e sulla sua opera, tentativi accademici e scolastici di reductio ad unum. Semplificazioni accettabili per alcuni, funzionali senza dubbio, ma fallimenti esemplari per il poeta torinese. È impossibile trovare una formula che comprenda ogni sfumatura della sua produzione poetica, e non per ragioni di vastità (ha pubblicato due sole sillogi, La via del rifugio, nel 1907, e I Colloqui, nel 1911), bensì per motivazioni che balzano all’occhio già alla prima lettura: ad esempio le variazioni stilistiche, che si realizzano in una continua giustapposizione di termini aulici e prosaici (la famosa rima «camicie:Nietzsche»); l’avvicendarsi poi di descrizioni, narrazioni o dialoghi talora venati di intenso lirismo, talaltra di una banalità quasi meschina, quasi mediocre; e ci si accorge subito che in alcuni passaggi vi sono vere e proprie contraddizioni di senso, affermazioni subito negate e sconfessate, aspirazioni appassionate che si rivelano posticce, false. Eppure non si tratta di una lettura difficile, tutt’altro: i versi di Gozzano sono comprensibili e privi di complicazioni formali, e anzi attraggono per la loro (apparente) semplicità e spontaneità. Ma come accade per tutti i grandi poeti, ciò che nella superficie sembra piano e privo di increspature, a un esame più attento si rivela quanto mai problematico e complesso.
Innanzitutto vanno chiarite le motivazioni di fondo. La sua scrittura, com’è evidente nei suoi alti e bassi tonali, scaturisce infatti dalla contrapposizione di due tensioni oppositive, di stampo (diciamo così) “psicologico”: l’una, fondata sulla fiducia (antipositivistica e più specificamente estetizzante e dannunziana) nel potere assoluto della parola poetica come strumento di significazione e di nobilitazione del reale, che lo spinge verso il poetare; l’altra che lo spinge invece al silenzio, procedente da una sfiducia ontologica nel valore di qualunque attività (sia essa artistica, intellettuale, sentimentale, politica, ecc.), di stampo materialistico e leopardiano. La sintesi tra queste due tendenze è un esito sofferto, ed è quella che lui chiama la «Tabe letteraria», la condanna a dover proferire pur sapendo che si tratta di un’operazione che autodistrugge, la corruzione cui porta la scrittura. Così scriveva in una lettera del 20 giugno 1908 ad Amalia Guglielminetti, la raffinatissima poetessa che Gozzano amò di amore tormentoso e inquieto: «Novità presenti, nessuna. Scrivo qualche po’ e in certe ore non sono scontento di me. In certe altre, invece, sono così demoralizzato che vorrei morire. Le cose abbozzate, i versi limati a gran fatica mi sembrano tentativi spregevoli e vorrei dare tutto alle fiamme e guarire per sempre dalla Tabe letteraria. Ma poi che so che non guarirò mai, mi rassereno, riprendo le mie povere carte e proseguo il mio lavoro inutile rassegnatamente». Ed è proprio quel sentimento di rassegnazione che fa della sua poesia il centro vitale e pulsante della contraddizione: perché soltanto rassegnandosi alle circostanze interiori e storiche insieme si può tentare il superamento di sé (insieme interiore e storico anch’esso) in un’oggettivazione artistica. Spiegano meglio il concetto le parole che T. S. Eliot scriveva nel suo famoso saggio intitolato Tradizione e talento individuale, e che senza dubbio il poeta torinese doveva sentire intimamente (sebbene siano state scritte poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1916): «La poesia non è un libero sfogo di sentimenti ma un’evasione da essi; non è espressione della personalità ma un’evasione dalla personalità. È naturale, però, che solo chi ha personalità e sentimenti sa che cosa significhi volerne evadere». Poesia come strumento di sopravvivenza e di autolesionismo, doloroso ma necessario.
Dal canto suo Gozzano, qualche anno prima di Eliot: «Non c’è altro di buono nella vita. Muoversi di continuo verso l’altrove, verso la cosa nuova. È la mania di tutti i tormentati e di tutti gli scontenti: uscire di sé stessi». Il che non vuol dire, com’è ovvio, assumere un’identità altra per sfuggire dalla propria, bensì mettersi al centro e togliersi la terra da sotto ai piedi, porsi in uno stato di crisi che sia costante e mai risolto, di cui la poesia sia testimonianza e mezzo necessario al suo compimento. Gozzano si rivolge allora alla questione più problematica, e cioè il rapporto tra il proprio io e la propria scrittura. Trattandosi di un rapporto conflittuale esso non può risolversi una volta per tutte: l’opera del poeta torinese si configura come una necessità profonda di mettere su carta un io combattuto con acredine, una sistematica lotta contro sé stessi nel tentativo di annullarsi come soggetto attraverso la scrittura. Di sottrarsi, in sostanza, come autore e come individuo. La tecnica che Gozzano mette in atto è la sua caratteristica divenuta ormai proverbiale, l’ironia. Un distanziamento dalla propria stessa materia poetica interponendo una lente che la distorca, che non renda mai percorribile fino in fondo la mimesi, l’immedesimazione, rendendola al contempo costantemente esplicita, e dunque evidente nella sua finzionalità. E non si ferma qui: quando, leggendolo, sembra di aver trovato un senso, uno spiraglio, una strada da percorrere, quando sembra che il poeta abbia finalmente scoperto le carte in tavola, proprio allora fa scattare una sorta di meccanismo a matriosca con un commento sarcastico, o con una giustapposizione dissacrante, sconfessando ogni possibile significato troppo saldo, ogni verità troppo evidente; per cui anche quel riso, di cui il lettore è partecipe, si rivela a sua volta un ghigno, una smorfia, un accesso forzato. Un’ironia corrosiva che lascia spazio al tutto e al contrario di tutto, al detto e al non detto, al reale e al possibile; ma che al contempo non è umoristica, non si ferma al riso che compiace. Stravolge il volto in una maschera amara che contempla nient’altro che il nulla dell’esistenza, figlia di quella «Tabe letteraria» cui non si sfugge, e dunque priva di qualunque intento o possibilità consolatori.
Ecco allora spuntar fuori il poeta delle «buone cose di pessimo gusto», che semplicemente si tratta di colui che tenta l’immedesimazione non nei grandi drammi, o nel Bello, o nel Sublime; ma nel grigiore del quotidiano, nel kitsch piccolo-borghese, nella mediocrità e nel provincialismo intellettuali ed estetici. Anche in questo caso il marchio della «rassegnazione» come frustrazione e riassorbimento delle aspirazioni è ben visibile; e anch’esso, in una certa ottica, può esser visto come meccanismo ironico, in quanto fallimento e disattesa delle premesse, presentato poi (scientemente) in modo maldestro come esito soddisfacente dei propri sforzi. E così, ad esempio, gli innumerevoli riferimenti alla propria autobiografia immancabilmente costruiti ad arte, smaccatamente falsi ma spacciati come momenti di profonda sincerità (parlando di sé stesso in certi racconti o ponendosi come protagonista in certe poesie si dà l’appellativo di «avvocato», lui che aveva intrapreso studi di legge senza laurearsi mai perché disertava le lezioni, affascinato da quelle di Arturo Graf alla Facoltà di Lettere!); oppure il frequentissimo sminuire e criticare la professione delle lettere («Lungi dai letterati che detesto», ne La casa del sopravvissuto; «Non ricco, giunta l’ora di “vender parolette” / (il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere, / Totò scelse l’esilio.», in Totò Merùmeni; e tante altre strategie stilistiche e retoriche estremamente raffinate e ponderate, che richiederebbero maggiore spazio e approfondimento perché si intrecciano con la filosofia, con la religione e (oso dire) con un’embrionale teoria della letteratura. Ma ciò che preme è che sconfessano, come si diceva all’inizio, quelle definizioni prêt-à-porter che tanto sminuiscono la genialità e la complessità degli uomini di pensiero, e che spesso li fanno apparire invisi a tanti studenti e studiosi.
SED HAEC HACTENVS