C’è anche mio nonno. Nato contadino poverissimo, mio nonno era emigrato in Australia ventunenne senza un soldo, si era dato al vagabondaggio e per questo era stato incarcerato (negli anni ’50, in Australia, il vagabondaggio era illegale), poi, rilasciato, aveva cambiato mille lavori: era stato operaio ferroviario, operaio petrolifero, elettricista, disinfestatore. Era tornato in Italia nel ’65 e anche qui altri impieghi: camionista, ferraiolo, magazziniere. In quella foto doveva essere pressappoco quarantacinquenne, e lo si vede anche lui tirare alla fune con gli altri in piena campagna e con tutta la forza che ha in corpo: nel fare ciò, indossa un abito di flanella grigio scuro, un maglioncino grigio chiaro, una camicia bianca e una cravatta rosso cupo. L’unica concessione che si è fatto per affrontare lo sforzo è stata allentarsi il nodo e slacciarsi il colletto. Non si è nemmeno tolto la giacca. La prima volta che vidi questa foto mi fece pensare. Pensai che, evidentemente, era questa l’idea di decoro di un operaio, elettricista, muratore, magazziniere, ex vagabondo, carcerato, emigrato, contadino sottoproletario con la terza elementare nato nel 1929 che passava una domenica in gita con i parenti. Pensai che quello che vedevo sembrava un altro mondo.
La giacca non si toglie mai. Questo il diktat che impediva a mio nonno di svestirsi. Ma questa regola, come tante altre che facevano il bon ton maschile, ha indubbiamente fatto il suo tempo. Oggi nessuno si sognerebbe di rinunciare alla comodità, che rappresenta a prima vista il principale e, per molti, unico criterio in base al quale abbigliarsi. L’importante è sentirsi liberi, senza alcuna costrizione fisica o sociale, in qualsiasi contesto: questa l’aspirazione di molti professionisti e dipendenti, lavoratori e studiosi, giovani e anziani. Ci sono persone che a guardarle le diresti pronte a scattare sui cento metri e stanno in ufficio sedute al computer, o, più di frequente, altri trasandatissimi e sciatti che si rivelano poi ingegneri, medici, avvocati. D’altronde, suona quasi ridicolo accusare qualcuno di non esser vestito decorosamente oggi che vediamo grandi manager in jeans e maglioncino, in girocollo, politici senza cravatta, senza giacca, addirittura in felpa. Categoria di facoltosi, questa, in grado di permettersi ben più di un abito di media confezione; ma che fa da spia di un ben più ampio panorama sociale, poiché godendo di un’esposizione mediatica sulla base della quale sanno di esser giudicati da una larga audience, scelgono di assecondare il proprio pubblico e di mostrarsi sportivi, giovanili, in spregio a qualunque criterio di rispettabilità ed eleganza. I personaggi pubblici sono notoriamente la cartina al tornasole di gusti e valori condivisi dai più. Ma basta guardarsi attorno per rendersene conto: il fenomeno è di larga scala e assume i tratti di una vera e propria trasformazione antropologica, se lo si rende solidale a quel grande periodo di rivolgimenti sociali che ha avuto origine con il Sessantotto. Il parallelo è immediato e sarebbe facile dimostrarne la veridicità storica. Ma è un fenomeno forse più complesso di quanto appaia a prima vista. Il criterio della “comodità” come valore dominante dell’attuale sistema dell’abbigliamento risponde solo parzialmente al nuovo ordine d’idee: si legga ad esempio questa riflessione di Gillo Dorfles, risalente alla fine degli anni ’70: «Qual è il giovane che porta i panni smessi (anche di ottima fattura) dei genitori?
Mentre basta assistere a un vecchio film degli anni Venti per accorgersi che gli adolescenti erano vestiti come i padri e i nonni, e che giacche con camicia e cravatta si portavano persino nelle scalate alpine. Non è solo per una ricerca di comodità e di semplicità che questo genere di usanze si instaurano. La stessa massiccia, anzi ubiquitaria, diffusione dei jeans, molto spesso è tutt’altro che funzionale, quando si considerino certi casi in cui povere fanciulle sudate e strizzate dentro calzoni superaderenti, sono costrette a indossarli in piena estate, mentre starebbero più comodamente (e piacevolmente, per sé e per il prossimo) con delle – oggi non più up to date – minigonne.» [Le buone maniere, p. 184]. La comodità è dunque più un “sentimento”, qualcosa di epidermico, la punta di un iceberg che si annida sotto la sua apparente neutralità. Nei modi in cui viene oggi evocata, essa non si limita soltanto a constatare la differenza oggettiva tra due capi, come, poniamo, una tuta da basket e lo sparato inamidato di un frac. È semmai un termine-ombrello sotto la cui ala protettiva si nasconde un diverso modo di guardare al vestito, che porta con sé istanze ben più ideologiche che meramente descrittive: la giacca e cravatta, ormai tipico bersaglio polemico di questo criterio di giudizio, in nome del quale si vorrebbe abolirle in favore di jeans e maglietta, non sono che un capro espiatorio di una trasformazione più profonda.
Attribuendo loro le caratteristiche di uno strumento di supplizio quasi masochistico, da flagellanti medievali, le si dipinge come se esse fossero intrinsecamente “scomode”, quando invece, a ben vedere, il concetto di “scomodità” è piuttosto relativo che assoluto: basta leggere le testimonianze di chi, nel passato, trovandosi di fronte a nuove mode che noi considereremmo ben più soffocanti, le lodava (o biasimava) per la loro praticità e per la loro, appunto, comodità. Ve ne sono a bizzeffe: spicca tra di esse l’autobiografia del duca di Windsor, A family album (ne trovate alcune parti tradotte nella nostra miscellanea sul duca per le Edizioni Stilemaschile, Il duca di Windsor. L’uomo che volle farsi stile), nel quale un conoscitore (e “praticante”) d’eccezione delle tradizioni maschili si sofferma spesso sull’assurdità di certe imbalsamature dalle quali tentò di liberare l’abbigliamento moderno. Fino al Sessantotto nessuno si era mai sognato di disfarsi, che so, della cravatta in ufficio perché era “scomoda”: essa rappresentava la divisa del borghese, uno status sociale agiato e invidiabile. Il paradosso è che oggi, a fianco a questa istanza polemica ormai capillarmente diffusa, in ufficio si vorrebbero indossare ad esempio i jeans al posto del pantaloni classici “perché sono più comodi”, quando chi indossa abitualmente i pantaloni con le pinces sa bene che sono invece molto più morbidi e confortevoli di un denim stretto a sigaretta. Queste pretese contraddittorie, portate avanti con le stesse argomentazioni e gli stessi presupposti, devono allora provenire da una radice comune più profonda. Io credo che ciò di cui oggi ci si vuole disfare è piuttosto l’idea stessa di “decoro” in sé e per sé, quella che mio nonno, come tanti altri uomini della sua generazione, riteneva al contrario inalienabile dal proprio modo di porsi in società.
Il “decoro” in senso tradizionale ha a che fare con la dignità e la convenienza, e rappresenta nient’altro che il motivo per cui ci si veste: coprire le nudità. È una questione che coinvolge la pudicizia, il timore di urtare la sensibilità altrui. Ma decoro vuol dire anche distinzione, appartenenza a un certo sistema di valori, difesa di quel sistema: ha perciò a che fare con il modo in cui ci rappresentiamo socialmente gli uni di fronte agli altri. L’uniforme di un soldato lo identifica come tale, e come tale gli impone diritti e doveri. Il camice di un medico, la livrea di un cameriere, la divisa di un commesso del supermercato hanno questa stessa funzione, ed è a chi le indossa che ci rivolgiamo per richiedere una visita specialistica, per avere il conto al ristorante, per trovare la corsia dei surgelati. Indossare un abito è anche assumere un ruolo, e il decoro implica l’assunzione dei privilegi e delle responsabilità che ne derivano. Tutte le società umane lo contemplano, poiché il vestito, indossato da sé o dagli altri, assume sempre un qualche valore simbolico. Ma al contempo, “decoro” ha il secondo significato di “decorazione”: ciò che è astrattamente agli antipodi di quanto abbiamo descritto finora. La decorazione è libera espressione di un gusto fine a sé stesso, e non contiene alcun significato etico: è disimpegnata e piacevole, può essere ipertrofica e debordante, ha il solo scopo di compiacere i sensi. Decorativi possono essere i disegni delle stoffe, le stampe sulle t-shirt, il risvolto ai pantaloni. L’abbigliamento ha anche questa caratteristica, che si intreccia inestricabilmente alla prima: quella di “abbellire”, di rendere più gradevole un oggetto. D’altra parte, comunque, certe decorazioni hanno spesso un significato simbolico tradizionale, come quelle militari da appuntare alla giacca: possiamo allora immaginare, semplificando, che si tratti di due tendenze in rotta tra loro, ma da sempre in reciproco bilanciamento quando si parla di un sistema d’abbigliamento. Ora, quel che di inusuale e di inquietante avviene oggi è il progressivo scomparire dell’idea che l’abito debba assolvere a una funzione di “decoro” nel primo senso che abbiamo attribuito alla parola, ciò che conduce a un disequilibrio tutto spostato verso la funzione di “decorazione”: da un lato, allora, si spiega l’eccessivo peso che il decorativismo assume nell’abito maschile contemporaneo, al punto da raggiungere vette di artificiosità che sfociano nell’eccesso, nel barocco, nel kitsch; dall’altro, è comprensibile come chi non sia concentrato in maniera particolare a ciò che indossa, che si veste tanto per vestirsi insomma, se in passato cercava se non altro di non essere “indecoroso” oggi è di norma sciatto, trascurato; ma: comodo. La comodità ha quindi sostituito il “decoro” come criterio di coloro che, per pigrizia, per insipienza o per banale divergenza di interessi, si vestono solamente per non andare in strada nudi. Per questo, oggi come oggi la comodità portata all’estremo e il decorativismo portato all’estremo non sono altro che gli estremi del nostro conformismo.
Trovare una via di mezzo è sempre più difficile. Gli esempi di coerenza e semplicità sono sempre meno, ed è per questo che spesso noi di Stilemaschile guardiamo al passato per dare un’idea del nostro concetto di “decoro”, quando esso era ancora vivo e predominante. La società dello spettacolo e dell’Internet 2.0, coerenti con le tendenze maggioritarie del nostro tempo, propongono e promuovono veri e propri guru dell’affettazione: da cui certi improvvisati “esperti di stile”, le ridicole catwalk di vip quasi clowneschi, le adunate di galletti e galline del Pitti, i fashion blogger, la street fashion. Mode e modelli che si ripercuotono come onde sismiche nelle loro grottesche ipostasi popolari, le cerimonie: i matrimoni, i battesimi, le prime comunioni, vere e proprie giornate tributate al cattivo gusto di massa. Le “occasioni” sono sempre state intese anche come momenti in cui potersi esibire di fronte agli altri, esser frivoli e vanitosi; ma hanno sempre temperato questa tendenza con quella opposta a mantenere la dignità di fronte agli altri, a non mostrarsi indecenti e sconvenienti. Questa è la sintesi che mostra mio nonno in quella foto. Togliersi la giacca sarebbe stato inappropriato in quel contesto: nemmeno tirare alla fune tra parenti lo consentiva. Oggi, invece, abolito questo principio, ogni “occasione” è un trasbordare di decorazione, una gara tra chi mostra per il solo fine di mostrare, è un gioco a chi “osa” di più. Ma anche chi cerca di reagire ai mass-media e alle logiche dell’industria, rifugiandosi nel su misura, deve fare attenzione: facile per chi si reca abitualmente dal sarto, come molti dei nostri lettori fanno, cadere nell’eccentrico e nella stravaganza o, al contrario, in un rigore minuziosissimo e quasi direi maniacale. In un mondo in cui l’eccesso è la norma, urge rifuggire dagli eccessi. È questo l’unico modo per non farsi risucchiare in una spirale tanto accattivante quanto degradante. Una spirale che Stilemaschile, con la sua attività web e editoriale, fin dalla sua nascita cerca con forza di spezzare.
P.S. In questa pagina abbiamo inserito foto di uomini del ‘900, senza alcun denominatore comune se non il decoro, che talvolta sconfina nell’eleganza, con cui sono ritratti. Indipendente dalla loro capacità economica (Mondrian viveva in condizioni umilissime, ad esempio), questi uomini vedevano nel rispetto dei canoni estetici acquisiti e condivisi la via per entrare in relazione con gli altri. Quando ancora l’individualismo e il menefreghismo non erano gli imperativi sociali oggi vigenti.
Questi uomini sono politici, pittori, atleti, architetti, attori, financo fuorilegge.
Grazie ai loro ritratti crediamo di ben supportare le parole di Marco Capriotti sul decoro e sull’e(ste)tica.
Vi invitiamo, infine, a fare un gioco: una per una, prendete le foto del pezzo e affiancatele a corrispettivi contemporanei. Prendete Mondrian e un qualsiasi pittore quotato ancora vivo, Le Courbusier e una cosiddetta archistar, etc…
Il confronto è impietoso. (Alfredo de Giglio)