LA VIA DELLA NOBILTÁ
A ben guardare, il Galateo sembra ormai un relitto, un fossile. In una società sempre meno gerarchizzata e classista com’è la nostra, le codificazioni rigide rappresentano di fatto un ritorno ad un passato non solo improponibile, ma dal quale, senza ombra di dubbio, emanciparsi è stato un vantaggio per la libertà dell’individuo. L’uomo di buon senso sa infatti che quel ‘nostalgismo’ qualunquista e pseudo sentimentale del “si stava meglio quando si stava peggio” altro non è che un modo per mascherare assenza di opinioni, di idee ben strutturate e razionali. Oggi il Galateo (che sia qualunque galateo, il primo o i suoi innumerevoli séguiti) sopravvive, dunque, soltanto come classico, e in quanto tale non può più essere considerato metro di giudizio della società; se ci dice ancora qualcosa, lo fa non nella superficie, ma nel profondo. Per capirne il linguaggio è dunque necessario scavare, e portare alla luce le esigenze profonde che ne hanno consentito e necessitato la formulazione.
Monsignor Giovanni della Casa (Borgo San Lorenzo, 28 luglio 1503 – Roma, 14 novembre 1556) autore del manuale di belle maniere Galateo overo de’ costumi (pubblicato postumo nel 1558)
L’atto di fondazione della città, teatro primario delle relazioni tra individui, è un atto di limitazione. Romolo traccia un confine, delimita uno spazio indefinitamente esteso in una quantità discreta: la sua città esiste in virtù del segno inciso nella terra, delle mura che la cingono. Al contempo, a questo principio dello spazio fisico corrisponde quello di uno spazio sociale (che ne è con tutta probabilità causa prima): il mio io (che sul piano fattuale si esprime nelle mie possibilità d’azione) esiste solo se costretto in una forma, che tanto più è necessaria nel momento in cui esso si trova a contatto con l’altro. Nello specifico, se per la vita pubblica (o politica, che interessa la collettività) la forma è rappresentata dalla legge, per la vita strettamente relazionale (o privata, nel senso di tutte le relazioni sociali particolari intessute da un singolo individuo) lo è dal Galateo. Donde la sua intima natura: esplicitazione, codificazione di un’esigenza connaturata al concetto stesso di esistenza; poiché, se questa esigenza può certamente sussistere di per sé, senza che sia necessariamente palesata, la sua esplicitazione colma i vuoti, risolve le aporie, appiana i contrasti. Ora, come ogni forma di limitazione, essa è profondamente arbitraria: ne sono prova, come già citato, secoli e secoli di manualistica di buona creanza, di massime artificiose e imbellettate, che educano in tutto, ma non insegnano nulla. D’altronde, la norma che si risolve in sé stessa, esigendo di essere acriticamente rispettata, lascia senz’altro il tempo che trova; anzi, rischia di imporre nuovamente, com’è stato in passato, un sistema chiuso ed opprimente per l’individuo. No; se il fine è stato evidenziato, il Galateo gioca su piani più sottili, reclama la sua attualità ad un livello più profondo.
“L’uomo eletto o eccellente avverte per contro l’intima necessità di appellarsi continuamente a una norma posta al di là di sé stesso, superiore a lui […] abbiamo distinto l’uomo eccellente e quello comune, dicendo che il primo esige molto da sé stesso, mentre l’altro non esige nulla, è pago, ammirato di sé stesso! […] Questa vita come disciplina è la vita nobile. La nobiltà si definisce in base all’esigenza, agli obblighi, non ai diritti. Noblesse oblige.” Così José Ortega Y Gasset (foto sotto) si esprime nel suo capolavoro, “La ribellione delle masse”.
Se, dunque, dare una forma originale (nel senso di unica, personale) alle proprie aspirazioni personali (ovvero poste al di fuori di sé ed autoreferenziali) permette di raggiungere la vita elegante o nobile, anche le proprie aspirazioni relazionali, come modi in cui vogliamo porci nel mondo, vanno plasmate con altrettanta importanza. E’ in gioco, si badi bene, la qualità, non la presenza o assenza di tali aspirazioni. Per raggiungerla, il Galateo si proporrebbe ancora, illusoriamente, come un manualetto di norme: seguirle implicherebbe, senza errori, il raggiungimento di buone relazioni sociali. In realtà, se da un lato ognuna di esse presuppone un’interpretazione univoca da parte dei soggetti, dall’altro va preso atto che nessun sistema comunicativo è perfettamente condiviso e sovrapponibile: una stessa parola, uno stesso gesto, uno stesso messaggio inviato ad un francese non è certo lo stesso che ad un italiano; ad uno sconosciuto non è lo stesso che a un amico d’infanzia; e così via. Il principio universale su cui si fonda il Galateo è soltanto questo: rendere la convivenza tra gli uomini accettabile, piacevole e proficua. Ciò che i singoli breviari normativi fanno è declinare questa massima nel contesto storico in cui si collocano; ma, in generale, ognuno di essi fa capo alla necessità di accorgersi dell’altro, delle sue esigenze e della sua personalità, non rifiutandolo in quanto semplice opposizione ma, piuttosto, inglobarlo nel sé come coscienza storica. Nei fatti, si tratta di tenere sempre a mente un concetto reso poetico già da Dante:
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
che è dire: è necessario accogliere l’altro in sé, porsi sempre in ascolto, in ricezione, mai in atteggiamento passivo od ostile; vedere l’altro come obiettivo a cui tendere per arricchire sé stessi e non come nemico da giudicare; concepire i rapporti sociali come scambio di conoscenza, dunque come tensione al miglioramento; interagire in due per creare una sintesi dialettica alla quale tendere come mèta, per raggiungere davvero la vita nobile o elegante. Per questi motivi, l’uomo che sappia leggere il Galateo come un classico vi leggerà non tanto norme alle quali adeguarsi ed appiattirsi, quanto piuttosto uno stimolo alla crescita individuale. Infine, una ridda di regole e corollari che si risolve ad un’unica massima: elegante è l’uomo che sappia accettare un suo simile come tale.