“Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella”, afferma ironico il protagonista de “La Grande Bellezza”.
E anche se non sono diventato uno scrittore, amo molto i libri, il cinema e quella sensibilità artistica che fa vedere oltre il visibile.
Questa sensibilità gambardelliana mi si è manifestata forse per la prima volta lunedì 29 dicembre 1986, all’età di 22 anni. E fu un’esperienza indelebile. Non avevo ancora sperimentato dei lutti ravvicinati e pertanto la reazione che ebbi all’epoca potrebbe essere stata influenzata da questo significativo particolare. Tuttavia il fatto accadde con forza, fu dirompente, inatteso e liberatorio. Ero studente universitario in lettere con indirizzo critica cinematografica. Appassionato del grande schermo, divoravo la visione di pellicole su pellicole nei vari cinema della Capitale, molti dei quali non sono più esistenti oppure trasformati in asettiche e impersonali multi sale. Li vedevo anche nelle rassegne dedicate, e infine nell’aula magna a La Sapienza. Integravo queste con centinaia d’altre obbligate sul piccolo schermo televisivo. Avere dei libri non è mai stato un problema per lo scrivente, e acquistarne sulla settima arte fu talmente semplice che in un paio di anni ne comprai circa 300. Ricordo quel periodo come un bel momento, come tutti quelli in cui inizia a svilupparsi una forte passione. Quando ne nasce una mi ci dedico a fondo, senza remore, senza risparmiarmi, senza stancarmi. Mi totalizza e talvolta la cosa ha effetti negativi e deleteri. Sembra non mi voglia abbandonare e se ci sono momenti di calo d’interesse, alla fine riemerge sempre, è latente ma presente.
Tornando al fatto di quel giorno, ricordo perfettamente gli istanti. Era passato il santo Natale e nel pomeriggio ero stato al cinema. Spesso mi ci recavo da solo, incurante di eventuali sensazioni che potevo dare. Vivevo assieme ai genitori e ai miei fratelli a casa dei nonni materni. La mia famiglia ancora non disponeva di una casa propria. Era un tantino caotico dal momento che eravamo in nove, e organizzarsi era d’obbligo. Il televisore posto nel grande salone dell’appartamento trasmetteva il telegiornale delle 20 del primo canale della Rai, un diktat del mio nonno materno che voleva l’apparecchio perennemente sintonizzato su quel canale a quell’ora, come credo avvenisse nella stragrande maggioranza delle famiglie italiane. Sul finire del notiziario, l’annuncio. Io non stavo seguendo ma riuscii a sentirlo solamente perché passai lì davanti in quell’istante. A distanza di oltre trenta anni, dove nel frattempo ho subito numerosi abbandoni da parte di cari, anche appartenenti al genere animale, scrivendo queste parole ancora mi commuovo, ho gli occhi lucidi, e se resiste qualcosa dovrà pur significare. “Oggi a Parigi si è spento il regista Andrej Tarkovskij“. Feci in tempo a strozzare quel NO in gola prima di scappare in bagno, entrarvi e girare la chiave nella toppa. Cominciai a piangere a dirotto seduto sulla tavoletta abbassata del water. Non volevo vedere nessuno e che nessuno mi vedesse. Non avrei saputo spiegare quel gesto che era ignoto anche a me stesso. Perché chi era morto non si trattava di mio padre né di un’altra persona cara e vicina, eppure la sua scomparsa mi addolorò fino a quel punto. Ci vollero alcuni minuti per tranquillizzarmi. Infine uscì dal gabinetto per chiudermi nella camera dei miei nonni, dove spesso mi rifugiavo e tenevo i miei libri e le altre mie cose.
Il sospetto che il maestro russo riuscisse a interloquire, attraverso le sue opere, direttamente con la mia celata spiritualità, lo ebbi la prima volta che vidi Andrej Rublëv. Alla comparsa delle campane, sul finir della pellicola, mi trovai immerso nella commozione. Uscito dalla sala cercai una spiegazione ma non la trovai, al giorno d’oggi invece non avrei avuto bisogno di conoscerla. Evidentemente era andato a stimolare qualcosa che non pensavo d’avere e di provare. La stessa emozione la provai anni dopo, sempre sul finire di un film, quando comparvero ancora le stesse campane, che stavolta suonavano non in terra ma nel Cielo, in Breaking the waves, “Le onde del destino”, di Lars Von Trier. Ma che il regista danese sia un devoto del citato russo agli appassionati di cinema è cosa nota.
Il giorno dopo la morte di Andrej Tarkovskij mi recai in una edicola per acquistare il quotidiano “La Repubblica”. Nelle pagine centrali dedicate alla cultura, ce n’era una intera dedicata al regista scomparso a firma di Paolo D’Agostini. Tarkovskij poeta del futuro, era il titolo. Nelle sue opere la nostalgia dell’armonia, citava un trafiletto. La ritagliai e la conservai. Quando quattro anni dopo ebbi una casa di proprietà, incorniciai il foglio su un telaio dal bordo nero, come il colore del lutto e del buio. L’appesi sopra alla testiera dell’appena acquistato letto.. Sono passati 30 anni e tutte le sere, prima di mettermi a dormire, getto uno sguardo a quella pagina oramai totalmente ingiallita.