Non ho contezza di quanti libri abbia letto finora, ma anche se fossero qualche migliaio non avrebbe alcuna importanza, perché quel che conta è la qualità e ciò che infine rimane.
Pochissimi, neanche cinque, quelli letti per una seconda volta. Preferisco dedicare il tempo che mi rimane a nuovi libri. Se questo è un principio valido per la letteratura, sul cinema il discorso cambia. Sono numerosi i film che ho visto in più occasioni e alcuni, come Alien, 2001, Brazil, Shining, L’angelo sterminatore, Hollywood Party credo una decina di volte. Penso che la ragione abbia a che vedere con la durata di fruizione, nettamente inferiore, e soprattutto perché è eseguita in forma passiva. Con questo sono del pensiero che la lettura sia una forma più alta, completa e autonoma di intrattenimento. Inoltre, quasi sempre è espressione derivante dalla creatività di un singolo e nell’arte, in franchezza, lo prediligo. Ed è la stessa ragione per cui amo maggiormente i film d’autore. Tutto questo non significa che releghi il cinema a un rango inferiore: ho un rapporto paritario con esigenze diverse. Ciò premesso non avrei mai pensato di leggere un libro per tre volte, e finora non era ancora accaduto. Ma ancora non avevo incontrato Philip K. Dick.
Cosa ha di tanto speciale Ubik? Cosa mi ha indotto a spezzare l’incantesimo?
Ero alla ricerca dell’introduzione a questo romanzo scritta da Sergio Cofferati nel 1998. Avevo già letto la sua postfazione per “Confessioni di un’artista di merda” (Confessions of a Crap Artist) trovandola straordinaria e illuminante, con quel bellissimo excursus sui “fools” e i rimandi letterari cólti e da lui colti nel romanzo e in genere in tutta l’opera di Dick. Sono infine riuscito a trovare Ubik con la sua introduzione su una bancarella dell’usato, pubblicata dalla Fanucci, con tanto di surplus all’interno di un inaspettato biglietto da visita di una fraschetteria di Ariccia, luogo della stamperia della casa editrice. Felice del rinvenimento, meno del cartoncino pubblicitario in quanto vegetariano, ho iniziato subito a leggere l’illuminato scritto del sindacalista e politico cremonese. Era talmente interessante che avrei voluto fosse meno breve. Il tomo era invece di 500 pagine, poiché conteneva oltre al romanzo redatto nel 1969, una sceneggiatura che Dick stesso scrisse su commissione cinque anni dopo nel 1974 (fu la sua prima) e che Cofferati anticipava essere di grande interesse. Il romanzo lo avevo già letto nella traduzione di Paolo Prezzavento, sempre editato dalla Fanucci nell’aprile 2003, quella del volume che avevo di fronte era di Gianni Montanari, grande esperto di fantascienza e scrittore anch’esso del genere (scomparso il 19 ottobre 2020). Non mi restava che una cosa da fare per arrivare alla sceneggiatura che mi incuriosiva non poco: passare a una rilettura del romanzo con la diversa traduzione. Al termine sarei arrivato a leggere lo scritto per tre volte. In prima istanza pensai sinceramente che avrei potuto saltare il romanzo e passare direttamente alla sceneggiatura. Non era molto che avevo ultimato Ubik ed era ancora vivo il ricordo della trama. Invece feci bene, perché fin dall’inizio fui “preso” in modo differente, il romanzo mi sembrò avesse una scorrevolezza maggiore, provai una sensazione epidermica che fosse una trasposizione più fedele. Un caso su tutti me lo confermò in seguito. Il claim del romanzo più noto al pubblico italiano è il seguente: “Io sono vivo, voi siete morti”, una scritta sul muro che Joe Chip trova all’interno di un bagno. Ha certamente un grande effetto così come è sebbene si tratta di una estrapolazione di una frase più ampia che è la seguente: “Salta nel cesso e stai a piedi in su. Io sono vivo, voi siete morti.” Così è nella traduzione di Prezzavento. Ma in quella che stavo leggendo di Montanari eseguita nel 1995, era ben diversa: “Saltate nel pisciatoio e mettetevi a testa in giù. Sono il solo ancora vivo. Voi siete tutti morti.” Troppo differente per non andare a controllare la versione originale inglese che dice: “Jump in the urinal and stand on your head. I’m the one that’s alive. You’re all dead.” E in effetti Montanari è fedele a Dick poiché traduce “urinal” in pisciatoio (anche se meglio e più elegante sarebbe stato orinatoio, ma attendete perché non è finita) che non è la stessa cosa del cesso di Prezzavento, e poi introduce il concetto di essere il “solo ancora” vivo. Manca però una cosa preziosa per l’autore se l’aveva inserita: la rima. Quando arriviamo alla sceneggiatura, tradotta sempre da Montanari tre anni più tardi nel 1998, questi ci ripensa e colma il gap raggiungendo a mio modo di vedere la perfezione. Scrive infatti: “Saltate nell’orinatoio e mettetevi capovolti. Sono il solo ancora vivo. Voi siete tutti morti.” Abbiamo infine sia l’orinatoio e almeno un’assonanza, dal momento che la rima sarebbe stata impossibile se non stravolgendo il testo originale.
A parte queste occasioni di confronto sulle traduzioni che leggendola la sceneggiatura ha dato, questa è straordinariamente rivelatoria: espone Dick, lo costringe a rivelare le sue reali intenzioni di romanziere, è una di quelle cosiddette “di ferro”, estremamente particolareggiata, e se applicata in maniera pedissequa avrebbe lasciato poco spazio alla creazione inventiva di un regista poiché prevedeva ogni soluzione. E infatti il film non fu fatto e noi appassionati dello scrittore ma anche del cinema ancora lo attendiamo, pur sapendo che, con Kubrick deceduto, l’opera con molta probabilità ci deluderebbe. Scopriamo inoltre che la sceneggiatura, nonostante fu scritta cinque anni dopo il romanzo, rimane decisamente fedele, a parte sul finire quando appare una scena inaspettata e stupefacente, forse debitoria dall’aver visto “2001 a space odissey” (già, ancora lui! Del resto Dick non era immune a Kubrick. Aveva già in passato modulato il titolo di un suo racconto, “Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb“, a quello di noto film del regista), ma estremamente efficace. L’unica differenza è che si avverte un maggior senso dell’ironia e della spiritosaggine, come avviene in alcuni dialoghi decisamente sciocchi fra gli “inerziali”.
Ma al di là di ogni considerazione, tralasciando l’incredibile e originale trama se si pensa che è un’opera del 1969 alla quale tanti hanno attinto (e ciò diventa ancor più evidente con la sceneggiatura che ha certamente influenzato molti cineasti che hanno avuto occasione di leggerla) tralasciando pure le tematiche dickiane anche qui presenti, del cosa sia reale e cosa no, di chi sia umano e chi no, c’è qualcosa in Ubik che lo rende unico nel suo genere. Un qualcosa che mi attrae e me lo fa apprezzare più di qualunque altro libro letto finora. Un qualcosa legato a una sensazione e che mi rimanda ad altri autori e ad altre letture significative. Fra gli altri testi che mi hanno fortemente segnato, ci sono due scritti dal medesimo scrittore austriaco: “Gelo” (Frost) e “Il freddo” (Die kälte) di Thomas Bernhard. L’universo è freddo e, ci suggerisce Dick, probabilmente lo è anche l’inferno. Coloro che in Ubik che si ammalano per poi morire cominciano innanzitutto con il sentire freddo. I corpi in semi-vita sono congelati. Ubik è il rimedio al grande freddo.
Ognuno di noi ha bisogno di Ubik. Per sentirsi radicati al presente, per essere compiutamente viventi, per non cedere alle lusinghe quotidiane delle pulsioni negative, per allontanare il freddo. Adesso ho scoperto di aver cercato Ubik per tutta la vita. Non dispero, forse un giorno lo troverò.
“I am Ubik. Before the universe was, I am. I made the suns. I made the worlds. I created the lives and the places they inhabit; I move them here, I put them there. They go as I say, then do as I tell them. I am the word and my name is never spoken, the name which no one knows. I am called Ubik, but that is not my name. I am. I shall always be.”