“Il duello è assurdo! E sono pronto a battermi contro chi sosterrà il contrario!”. (Marcel Boulenger)
“Le radici sono importanti”, sentenzia la “Santa” nel film La Grande Bellezza.
Sarà per questo che da quasi mezzo secolo è in atto una lenta progressiva inesorabile distruzione e cancellazione (due fasi consequenziali di cui la seconda è la più terribile) delle nostre radici.
Globalizzazione, abolizione del principio di autorità, secolarizzazione e conseguente perdita di ogni senso del “sacro”, sesso fine a sé stesso (merce liberata sia dal desiderio che dall’amore, come scrive Bauman, ridotto a funzione meccanica e burattina), teorie trans-genere (o de-genere?), cognomi delle madri…
Le radici ci danno identità. Ci mostrano da dove veniamo. Ci ricordano che siamo parte di entità più grandi, piccoli rivoli in fiumi che partono da lontano e dai quali non possiamo uscire mai totalmente, chiamateli archetipi (Jung) o strutture (de Sassure), o…
È ancora Bauman a parlare di sgretolamento del tessuto sociale, che esalta la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. Tale libertà – questo grande imbroglio – è basata su una apparente assenza di limiti, sul disprezzo del conformismo e della collettività, sul disinteresse per il bene comune.
Ma come insegna Freud l’es, basato sul principio di piacere, se non si scontra con il super-io, la coscienza morale, non potrà mai diventare Io, uomo. Es è il bambino, che risponde solo alle stimolazioni più immediate: “consigli per gli acquisti… “.
Si può essere davvero liberi solamente quando le regole sono ferree. Vale per la disciplina militare, per l’arte, per l’amicizia, per l’amore, per la vita tout court.
Le radici, dicevamo, formano l’identità, che a sua volta obbedisce a delle regole. L’uomo di cui Stilemaschile (così come Arbiter) parla, nei propri libri, l’identità se la costruisce. Sia esso un dandy o un samurai o un gentiluomo (tre figure chiave che ritroviamo nell’Apologia del duello), è un uomo che obbedisce a un proprio credo, a un codice etico ed estetico.
La parola gentiluomo, ad esempio, che discende dal francese gentiluomo d’arme, si trova nella nostra lingua già nel 1292 e significa colui che “si comporta in modo cavalleresco e leale”. E quant’è anacronistico oggi parlare di gentiluomini? Nei tempi (bui) del “popolo di internet” (bue) – per inciso: una delle definizioni più aberranti mai concepite della civiltà occidentale –, nei tempi della dittatura del politicamente corretto, degli insulti “vir(tu)ali”, fatti a colpi di tastiera e pseudonimi, già solo l’indossare una cravatta è considerato un’insubordinazione al dis-ordine mondiale. Una ribellione al contrario. Figuriamoci parlare di codici, regole, identità!
Ancora secondo il Codice Cavalleresco Italiano di Jacopo Gelli, edito per la prima volta in Italia nel 1887, il gentiluomo è “colui che, per una raffinata sensibilità morale, ritenendo insufficienti alla difesa del proprio onore le disposizioni con cui patrie leggi tutelano l’onore di ogni cittadino, s’impone la rigida osservanza di speciali norme che si chiamano leggi cavalleresche”. Questa definizione si legge nel testo più importante, se non il solo, che parli del duello e delle sue regole, più di 500. L’uomo “online” – l’antitesi contemporanea del gentiluomo – è invece vigliacco e infantile. Ecco perché parlare di duello gli fa paura. Quando si incrociano spade o pistole non ci sono scuse: o ci si affronta o si scappa. Il duello è un combattimento (concordato) tra due individui appartenenti alla stessa condizione sociale (fra i militari i duellanti devono essere di pari grado, come ci insegna anche Joseph Conrad nel libro The Duel: A Military Tale, 1907): si è o impavidi o pavidi. Non c’è pareggio, niente “catenaccio”. È per questo che “Oggi si preferisce perdere la faccia piuttosto che la vita”, come scrive lucidamente Ivano Comi nella seconda parte di Apologia del duello. E aggiunge con sarcasmo: “Bel cambiamento. In peggio però!”.
Quando l’amico Alex Pietrogiacomi mi ha proposto di editare in Italia, per la prima volta, Apologie du duel di Marcel Boulenger, scritto nel 1914 da questo letterato, medaglia di bronzo nel fioretto alle Olimpiadi del 1900 e amico di d’Annunzio, non ho esitato. Per il tema, il tono dell’autore (ironico ma inflessibile, paradossale ma consapevole), per la possibilità di parlare di codici e regole, di cavalieri e militari, di onore….
In sintesi, abbiamo deciso di tradurre e pubblicare Apologia del duello perché oggi, seppure in un periodo in cui ci si azzuffa continuamente, il duello è una causa persa, e lottare per una causa persa è sempre più elegante e coraggioso che lottare per una vittoria facile e schiacciante. Noi attacchiamo lo status quo che ci vede vittime di un lassismo morale (da mos, moris, costume) indecente, forti dell’idea che “L’avversario che attacca mostra un coraggio infinitamente superiore del combattente che attende”, come scrive Boulenger. D’altra parte, tutta la vita in sé è una causa persa, sprecata, se non gli diamo noi una sua coerenza, un ordine, una direzione.
Boulenger deplorava la scomparsa del duello e con esso la possibilità di imporre la buona educazione. Tra l’altro, bisogna specificare che esistevano vari tipi di duello e che quello cosiddetto “all’ultimo sangue” era giudicato rozzo e volgare. La sfida risiedeva più nell’affrontarsi che nell’uccidersi, più nell’azione in sé che nell’atto, come avrebbe detto Carmelo Bene.
Duello come simbolo e summa della vita maschile. Quindi, ci dice Boulenger:
Il duello è una scuola di coraggio e bravura (e ha, in effetti, il suo codice che si avvicina a quello più ampio, dell’onore) […];
Il duello evita lo scandalo e il rumore. Il duello evita anche la brutalità, la volgarità, gli ignobili pugilati, i calci, i colpi di canna per strada, se non persino i colpi di pistola.
È l’ultima, delicata, ma ancora sovrana, barriera contro i calunniatori e i maleducati.
E poi perché negarlo? L’atto che consiste nel rischiare la propria vita, in fondo, ha sempre la sua grazia […].
C’è una bellezza nell’arte di duellare e niente è più “magnifico di un bel colpo di spada – un affondo! – ben portato sul terreno…
Boulenger rappresenta già un secolo fa l’invadenza di fotografi e “cinematografari”, di fan femminili che spasimano alle gesta del duellante preferito, la mancanza di savoir faire di chi non sa né offendere né ricevere un’offesa (esilaranti gli insegnamenti a proposito del Marchese di Monpavon)… Insomma, Boulenger ci racconta ironicamente i prodromi dello sfascio contemporaneo.
Se Boulenger è un dandy, nella vita e nell’opera, nella seconda parte del libro parliamo del gentiluomo e del samurai, grazie a un “Cammeo” di Ivano Comi, studioso e collezionista e scrittore, che ci spiega onori e oneri di queste due categorie di uomini, a loro modo, guerrieri.
In conclusione, l’uomo, sia dandy, gentiluomo o samurai, deve quotidianamente dar prova di sé e mostrare a tutti la propria etica (scienza morale) e la propria estetica (scienza del bello), in un continuo e feroce duello contro l’omologazione e la volgarità.
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