Dal 1750 circa, molte potenze europee intraprendevano politiche espansionistiche aggressive nelle regioni tropicali.
Con l’intensificarsi delle aspirazioni imperialistiche e coloniali, i vari Stati (Gran Bretagna, Germania, Francia, Portogallo, Belgio e Stati Uniti, tra gli altri) si impegnarono a fronteggiare i problemi relativi alla preservazione della salute degli europei bianchi in climi assai diversi da quelli della madrepatria: perlomeno dal XVII secolo, infatti, i “tropici” erano immaginati come spazi dai quali trarre potenzialmente grande benessere, ma dai quali provenivano anche morte e malattia. Per affrontare queste pericolose ma desiderabili regioni del pianeta, gli Inglesi elaborarono una considerevole quantità di studi scientifici (la maggior parte dei quali proveniente dalla London School of Tropical Medicine) riguardanti il mantenimento della salute dei bianchi europei; e, per molti, l’abbigliamento coloniale era uno degli elementi essenziali da valutare in tal senso.
Le idee concernenti l’abbigliamento in relazione alla preservazione della salute nei climi tropicali risalgono quantomeno al XVII secolo. Si credeva che il clima causasse direttamente l’insorgere delle malattie: inizialmente il principale fattore scatenante fu individuato nel caldo intenso, a cui si aggiunsero, nei dibattiti scientifici e medici dell’epoca, la luce solare, l’umidità, le variazioni stagionali e gli sbalzi di temperatura. In tale ottica, un abbigliamento che fosse appropriato allo stile di vita e all’ambiente coloniale era considerato di primaria importanza per mantenere l’equilibrio delle funzioni fisiologiche.
Fortemente dibattuta era la questione riguardante il tessuto migliore: lana o cotone? Le diverse scuole scientifiche di questa Medicina Tropicale argomentarono le loro scelte. Citiamo solo il pensiero del tedesco Gustav Jaeger, zoologo, che giustamente sottolinea come la lana ricopra anche gli animali che vivono in quelle zone e che non sembrano soffrire molto… La lana fa traspirare la pelle, uniforma il calore corporeo, mentre le fibre vegetali no. E poi, avete mai visto un animale andare in giro coperto di cotone?….
Per quanto riguardava la questione relativa al colore, essa era affrontata in maniera piuttosto semplice, almeno fino agli albori del XX secolo. Era noto che i colori più chiari assorbono meno calore, e perciò si indossava a ragione il bianco rispetto al nero; d’altro canto, con lo svilupparsi delle teorie razziali, nacque un dibattito relativo al perché gli abitanti dei climi tropicali avessero una pelle più scura in luoghi in cui il calore era più intenso (una pubblicazione del 1905 era “The effects of tropical light on white men”).
Fu in questo contesto che vide la luce il nostro amatissimo Solaro.
Il Solaro fu concepito per prevenire non soltanto scottature e carcinomi, ma anche per inibire i raggi “attinici” (quelli che oggi chiamiamo radiazioni ultraviolette) del sole, che si immaginavano responsabili di causare disfunzioni fisiologiche e disordini nervosi. L’ideazione del tessuto era legata proprio all’osservazione del fatto che il colore della pelle era più scuro laddove l’irradiazione solare era più intensa.
Louis Westerna Sambon, il suo inventore, era un importante medico tropicale inglese con origini italiane. Iniziò a lavorare sul Solaro dopo aver sostenuto degli esperimenti di spettroscopia, nei quali aveva notato come «esaminando la pelle delle razze di colore abbiamo trovato evidenze di forte assorbimento da parte del pigmento che vi si trova contenuto». Gli esperimenti confermavano «la teoria per cui la pigmentazione provvede a un’efficiente protezione naturale contro i raggi ultravioletti presenti nella luce solare, in particolare nelle regioni tropicali»[1]. Sambon non rese pubblico l’esito dei propri esperimenti né lo sviluppo del Solaro fino al febbraio del 1907, quando pubblicò un resoconto nel Journal of Tropical Medicine nel quale scrisse: «Ora che sappiamo che l’elemento nocivo del sole tropicale è la luce attinica, e la Natura ha difeso i nativi tramite uno schermo protettivo analogo a quello usato dai fotografi per preservare le proprie lastre fotografiche, l’uomo bianco dovrebbe essere in grado di adattarsi alle condizioni meteorologiche dei Tropici in maniera tanto perfetta quanto quella di un nativo […] Con questo obiettivo in mente mi sono impegnato nella produzione di un tessuto (realizzato dalla Ellis&Johns, n.d.r) composto di fili bianchi e neri, bianchi e rossi, o bianchi e arancioni, tessuti in modo da presentare uno strato esterno di colore bianco e uno interno di colore nero, rosso o arancione»[2].
Nonostante il favore e l’approvazione che ricevette in Inghilterra, venne alla fine dimostrato che l’uso del Solaro non sortiva alcun particolare effetto benefico sulla salute. James M. Phelan, un medico americano residente nelle Filippine, sperimentò il Solaro su 500 soldati americani e mostrò come il tessuto non avesse nessun effetto protettivo. Anzi, egli provò come il Solaro fosse scomodissimo per i soldati, al punto da ritenerlo nocivo alla salute…
In conclusione, se in ambito militare il Solaro, forse il primo tessuto tecnico creato dall’uomo, fu velocemente dismesso, così non fu per il mondo dell’abbigliamento maschile, in cui detiene oggi un posto di assoluto rispetto, rappresentando un classico nel guardaroba dell’uomo elegante.
(Ringraziamo Stefano Ales per averci segnalato l’articolo: European cloth and “tropical” skin: clothing material and British ideas of health and hygiene in tropical climates, 2009, Ryan Johnson, University of Oxford.
E Paolo Tarulli per l’attenta traduzione)
[1] Louis W. Sambona, “Tropical Clothing”, in Journal of Tropical Medicine, 1907
[2] Idem